Ricordo che qualche anno fa, all'improvviso scoprii i Sigur Rós.
Era un periodo strano, in pieno fermento. Tante cose stavano per accadere, solo che ancora non lo sapevo.
Lavoravo quasi ogni notte. Ricordo che dpo aver chiuso la porta del pub andavamo spesso a fare colazione insieme, e riempivamo il bar fino alle prime luci dell'alba, mentre mangiavamo il primo cornetto della giornata e tenevamo in mano un cappuccino tiepido.
Che tanto nessuno ci aspettava a casa.
Era un po' inusuale per me, che uscivo da due convivenze, che una dietro l'altra avevano occupato quasi dieci anni della mia vita. Non che sia tantissimo, ma quando non hai nemmeno compiuto trent'anni ti sembra un'eternità.
Avevo comprato un piccolo ipod, di quelli semplici, bianchi e lisci. Lo avevo riempito di canzoni che potessi cantare, almeno non mi addormentavo mentre guidavo verso casa. Canzoni di merda, che mi facessero credere di potercela fare anche da sola. Vabbhe, che io credo fin troppo alle favole, ed alle volte seguo il mio cuore a tal punto da perdere di vista la realtà, e ritrovarmi nei casini.
Poi, come accennavo, scoprii i Sigur Rós. Non che questo abbia cambiato la mia vita. In fondo non capivo una parola di islandese, ma le melodie così strazianti mi facevano almeno viaggiare in paesaggi tra lo psichedelico ed il fantastico. Quando venni a sapere che avrebbero suonato in Italia non ebbi un attimo di incertezza: sarei stata lì. Dovevo vedere se era un sentimento sintetico, quello che provavo, o se anche dal vivo avrei provato quella strana sensazione di leggerezza, come se riuscissi a volare.
Ricordo che eri con me. Che fino a due minuti prima dello show ti chiesi di tenermi la mano mentre gli islandesi stavano per salire sul palco, e che tu mi dicesti di no, che volevi stare fuori dai cancelli a guardare la partita.
Non che ti importasse poi del calcio più di tanto. Solo che non ti piacevano, i Sigur Ròs, e buttare via i soldi del biglietto non ti andava. Io poi non mi chiesi perchè io invece ti seguivo ovunque. Mi sentii soltanto un po' più sola, anche se tu saresti stato a solo poche centinaia di metri da me, a guardare la partita in piazza.
Per fortuna, i Sigur Ros. Il loro show per me fu molto più che un sogno, perchè ero sveglia. Mi lasciai cullare come una neonata, guardando a bocca aperta le ombre proiettate sulla parete di stoffa, e battei le mani ridendo, quando la banda con le giacche rosse comparve sul palco, la grancassa, i piatti, la tromba...che meraviglia!
In fondo un po' ti ringrazio per esserne rimasto fuori. Fossi stato lì a tenermi la mano magari avrei
pensato che ero felice solo perchè tu eri lì, perchè mi illudevo che l'amore fosse per sempre e queste stronzate qua. Avrei pensato che condividere quella emozione con te la avesse amplificata nel ricordo.
Invece quello che ricordo di quella sera è che tu eri fuori, che eri come un corpo estraneo a me, cancrenoso e morente. Ricordo che prima del concerto eravamo in giro, ed il sole bruciava la pelle. Ricordo che dopo del concerto ci sbrigammo a guidare verso l'autostrada, per evitare i caroselli delle auto. Ricordo che qualcosa stava morendo.
Ma ricordo anche che mentre gli islandesi erano sul palco io ero lì con le lacrime appese agli occhi, a ridere e battere le mani. Ricordo che tutto era rosa intorno a me, che sulle mie labbra c'era il sorriso, ed il fatto che il mio cuore fosse anch'esso in cancrena era così lontano da me da sembrare quasi un astrazione. Come se il mio cuore fosse con te a guardare la partita, mentre io ero in un sogno con tutta me stessa.
Inoltre, credo fosse quella l'ultima volta che ci siamo visti. Non ne sono sicura. Quello che so è che i Sigur Ròs li ascolto ancora. Loro sono rimasti.
(Quello che segue lo scrissi un paio di giorni dopo il concerto. Non ti nomino neanche, quasi a voler sottolineare che quel sogno lo ho vissuto da sola..)
Arrivo a Ferrara in pieno giorno, il sole cade a picco sulla mia testa ma un vellutato vento tiepido mi ricorda che ho lasciato per un giorno la mia afosa Terni. Faccio un giro per le vie del centro storico, mi va di passeggiare con questa bella giornata. Le mura ed i tetti sono tutti rossi, come bruciati dal sole, e l’intero quartiere finisce per sembrare un unico blocco di edifici. Quando svoltando mi appare il Palazzo dei Diamanti il cuore mi batte forte, e non resisto senza toccare le piramidi che ne rivestono la facciata, ripetendomi che allora esiste davvero. Proseguendo un altro po’ arrivo a casa dell’Ariosto, calpesto il suo giardino, poso lo sguardo sulle piante rampicanti e sulle basse mura che lo cingono, mi manca claustrofobicamente il fiato, e mi chiedo se anche lui si sia sentito prigioniero, e per questo si sia ritrovato a scrivere di follia e viaggi improbabili. Ore diciannove: è tempo di perlustrazione. Torno al Castello, alle spalle del quale tra un paio d’ore verranno gli islandesi, attraverso il ponte levatoio gettando un’occhiata ai giganteschi pesci che fanno capolino dalle acque poco profonde e torbide del fossato, oltrepasso il cortile e vedo nella piazza il palco già pronto. Un andirivieni di roadies mi annuncia che sta per aver luogo il soundcheck. Alle spalle del palco c’è un giardino, e decido di sedermi lì per ascoltare in disparte. Chissà se il soundcheck, per questi ragazzi venuti dalla terra dei geyser, sia o meno un momento privato, ma a giudicare dalla piccola folla che già si poggia alle transenne sembrerebbe di no. Da una sacca pendono delle bacchette colorate da batterista, tutte diverse; immagino siano anche per il grosso vibrafono. Mi allontano solo per mangiare qualcosa. Per la strada fervono i preparativi in vista della partita di stasera, alcuni innalzano un maxischermo, altri sventolano delle bandierine. Un ragazzo indossa una riccia parrucca tricolore, qualche tromba stride rumorosa, e mi chiedo se lo spettacolo sarà funestato dal tifo di un’intera cittadina. L’arco di accesso alla piazza è adesso schermato da un enorme telone blu, su cui spiccano delle grosse stelle gialle. Qualcuno si affretta ad entrare, spostando il telo con la mano e venendone subito inghiottito. Sul palco non c’è ancora nessuno, solo un bit elettronico rimbomba, come una grossa bomba ad orologeria. All’improvviso le prime note di Takk, il cielo è ancora chiaro e mi sembra di essere in Norvegia, quando d’estate il sole non tramonta mai del tutto. Jònsi strazia la chitarra con l’archetto, allungato come una statuetta etrusca, e la sua voce da elfo mi risuona nelle orecchie, acuta, stridula, malinconica, mentre eccezionali giochi di luci e videoproiezioni inebriano gli occhi, e tutti giocano a scambiarsi i ruoli, le Amiina agli archi e la banda dei fiati, nella penombra che intanto si sta trasformando in oscurità, rendendo sfumati i contorni, indecifrabili le espressioni, indistinguibili i volti. Finché un folletto tira il sipario bianco, mentre lo show continua, in un crescendo di pathos controluce; i musicisti si sono ormai trasformati in ombre cinesi, una rappresentazione allegorica di loro stessi, proiettati su quel piano ondeggiante sotto il soffio del vento, ad intermittenza, come allucinazioni che si sovrappongono l’una all’altra, si inseguono, si dimenano in preda a frenesia, dando prova di eccezionale emozionalità, a dispetto del ghiaccio d’Islanda che permea i loro sguardi. Infine il sipario torna ad aprirsi, loro si schierano in riga, alla maniera delle compagnie teatrali e ci ringraziano, per aver disertato la partita, per essere rimasti con loro, dopodichè scivolano fuori saltellando come bambini. Li incontro un’ultima volta in piazza, davanti allo schermo, seguire divertiti gli ultimi concitati minuti del match. Stavolta vado io a ringraziarli, mi rispondono takk con un sorriso luminoso, e quando mi volto sono già spariti nella confusione del primo goal. Mi affretto alla macchina, e sto attraversando la città ancora immobile, buia e silenziosa. Mi si affiancano due ragazzini in motorino, la bandiera stretta in mano, i primi colpi di clacson, e in un battito di ciglia il frastuono di mille trombe si alza progressivo, come uno stormo di uccelli che prende d’improvviso il volo, nello stesso istante in cui sto imboccando il raccordo, allontanandomi da quel luogo magico che mi saluta così fragorosamente come nessun altro luogo aveva mai fatto prima. Sul primo autogrill prendo un caffé, vedo che qualcuno ha la maglia uguale a quella che ho preso all’unica bancarella, e so di avere con loro in comune un piccolo segreto: il concerto dei folletti islandesi, mentre il resto dell’Italia si era fermato a seguire con gli occhi una palla...
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