7 December 2013

Dicembre, di nuovo.


Mi rendo conto che in qualche maniera aveva ragione Vico, con i suoi corsi e ricorsi. La storia si ripete sempre, dopo un po', anche se ognuno di noi è così stramaledettamente convinto di essere un originale individuo, con proprie idee, comportamenti non influenzati da fattori esterni, e soprattutto: capace di relazionarsi agli altri ed alle situazioni che si presentano ogni giorno, elaborando soluzioni inedite e specializzate. Mai verità fu più lontana da questa convinzione naif. Gli esseri umani sono stampati in serie, e non c'è un poi così elevato numero di forme possibili, non esistono innumerevoli modi di reagire ad un evento, ad un abbandono. Noi pensiamo spesso di essere andati oltre. Oltre un exfidanzato, oltre una vecchia amicizia, oltre una mania dimenticata, oltre un trauma. Ci insegnano che voltare pagina si può, che un dolore si può elaborare e trasformare in energia positiva, e forse è anche vero, per un po'. Ma questo "per un po'" non è mai per sempre, o almeno quasi mai. I nostri difetti torneranno, dopo qualche tempo, a farsi vivi, le nostre debolezze prenderanno di nuovo il sopravvento. E come già accaduto, dovremo ritrovarci a combattere con loro, fino ad uscirne vincitori, o a soccombere. Ancora una volta. E poi di nuovo e poi di nuovo ancora.
Adesso è tornato Dicembre, come ogni anno. Personalmente mi piace il Natale, anche se la febbre dei regali sotto l'albero non la ho mai capita. Ho sempre avuto problemi a trovare qualcosa da comprare alle persone a cui voglio bene, la ho sempre vissuta come una forzatura, ed odio ancora di più ricevere regali da loro, specialmente perchè loro, invece, azzeccano sempre. Forse sono una pessima ascoltatrice. Ci ho provato, a volte a comprare dei regali, ma ho sempre fallito, nell'una o nell'altra direzione. A volte troppo, a volte troppo poco. E nel momento in cui il pacco viene scartato, e vedo il grosso punto interrogativo negli occhi di chi riceve il regalo, ogni volta vorrei voltarmi, aprire la porta e saltare sul primo volo disponibile per l'altra parte del mondo. Ho a lungo sognato di passare le mie vacanze di natale su un'isola, a prendere il sole da sola e bere cocktails. Fare una telefonata a mia madre la sera della vigilia, mandare un sms ai miei ex, tanto per rassicurarli che no, la psicopatica non li ha dimenticati. Poi però mi ritrovo sempre incastrata in situazioni che richiedono la mia presenza. E me ne sto lì, a bere whisky e ridacchiare, sognando le barriere coralline. Same old shit per capodanno, solo che accompagno il whisky con un grosso sigaro.
L'unica soluzione è trattenere il fiato, tirare fuori gli addobbi natalizi, andare in giro col cappello rosso e bianco, cantare e mettere musica natalizia, e poi allo scoccare della mezzanotte del 6 gennaio, sbrigarsi a riporre tutto nelle scatole, di nuovo. Magari provare anche un pizzico di nostalgia, che manca un anno a Natale prossimo, che cazzo di festa bipolare. Non è un caso che la maggior parte della gente che ha voglia di suicidarsi si decida proprio in questi giorni. Non è un caso che la storia si ripeta. Prometto che quest'anno non farò stupidaggini. Berrò come al solito, ma niente figure di merda con i suoceri. Lascerò a mio marito l'onere di fare i regali di Natale, che a lui invece piace. E lascerò che gli altri continuino a chiedersi come fate a stare insieme, che siete così diametralmente opposti, e che tutto vada a rotoli. Senza motivo. Che a Natale queste cose accadono, perchè uno diventa malinconico ed emozionale, come se fosse scritto da qualche parte. Come se non fosse soltanto il retaggio di anni di aspettative deluse, desideri irrealizzati, sogni infranti. Come se non fosse soltanto la storia che si ripete.
Grazie Vico, per averci aperto gli occhi. 

Il suono del pianoforte.

Il suono del pianoforte.


Il suono del pianoforte mi arriva da dietro la porta chiusa della grande sala Egalia.
Passeggio per i lunghi corridoi deserti, mentre loro sono tutti dentro, al buio, ad ascoltare quelle musiche armoniose. Mi sembra quasi di vegliare su di loro, e questa sensazione mi rigonfia il cuore, mi fa sentir indispensabile.
Quando arrivai, poche ore prima, nell’edificio moderno tutto cemento e vetrate non c’era nessuno. Per prima cosa un giro tutt’intorno, per assicurarmi che tutto fosse al proprio posto. Poi cercai la scatola dei fiammiferi svedesi nei cassetti, chiedendomi il motivo dei suoi imprevedibili spostamenti da un cassetto all’altro, di continuo. Accesi le candele.
Le candele donano un’atmosfera soffusa ai locali candidi, il loro riflesso sulle vetrate cattura lo sguardo e lo lascia vagare oltre il vetro stesso, lasciandolo infine posarsi sull’edificio dirimpetto, un palazzo art nouveau dalle faccie arricciate in smorfie scolpite nella pietra bianca.
Dopo qualche decina di minuti udii distintamente il rumore frusciante dell’ascensore; ne uscirono i primi ospiti che andarono tranquillamente a sedersi nel salottino, un bicchiere di vino bianco in mano, gettando un sorriso timido nella mia direzione, e proseguendo a parlare sottovoce, quasi gelosi della loro conversazione.
Ripenso a loro e mi chiedo dove siano seduti adesso. Immagino la loro espressione assorta, mentre il pianista si agita sulla tastiera. Immagino il movimento delle loro mani mentre applaudono, il sorriso appena accennato sulle loro labbra. Magari adesso, per via del poco vino, quel sorriso è un po’ più ampio, loro sono più rilassati e mi avrebbero salutato con minor timidezza.
All’improvviso mi accorgo della Luna, che lungo il suo percorso verso il tramonto è spuntata nella parte superiore della grossa finestra verso il fiume. La nebbia la fa apparire pallida ed infreddolita. Tutt’intorno un alone di luce come una corona.
Per la strada quasi nessuno. Butto un’occhiata all’orologio, e faccio a mente il calcolo di quanto manca alla fine del concerto, quanto impiegherò per riordinare la sala, mettermi cappotto, sciarpa, cappello e guanti, attivare tutti gli allarmi, raggiungere la mia macchina, parcheggiata giusto dietro al palazzo art nouveau, guidarla fino al garage ed entrare a casa.
Mi sembra ragionevolmente presto, probabilmente riuscirò anche a guardare un po’ di tv prima di cadere addormentata sul divano.
Mi avvio per i corridoi deserti ancora una volta, sento gli applausi finali esplodere all’unisono e mi avvicino alla porta della sala. Pochi istanti dopo gli ospiti inziano a fluire verso le scale, mi salutano e se ne vanno. Per un attimo intravedo nella colonna umana anche i due che per primi erano usciti dall’ascensore, uno di loro mi sorride fuggevolmente ed io auguro loro la buonanotte.
Riordino in fretta la sala, pochi bicchieri da portare al barista, qualche sedia fuori posto, un guanto caduto a terra e dimenticato, faccio di corsa le scale fino alla terrazza, attivo l’allarme, poi scendo fermandomi per un attimo ad ogni piano, controllo che tutto sia in ordine ed attivo uno dopo l’altro tutti gli allarmi.
Agito la mano per salutare il barista, lui mi sorride mentre svuota la cassa. Arrivata davanti all’ingresso principale inizio a coprirmi, prima la sciarpa morbida d’angora, poi il cappello di lana, fin sopra gli occhi. Allaccio la zip del cappotto, prendo le chiavi della macchina dal fondo della borsa e me le ficco in tasca. Per ultimi i guanti. 
Mentre cammino rapida verso la mia macchina penso che il concerto mi ha rilassata, seppur ascoltato da dietro la porta chiusa. Altre volte mi piace entrare e sedermi in fondo alla sala, ma stasera non mi andava. Stasera avevo voglia di starmene per conto mio, e farlo dietro una porta chiusa che nasconde trecento persone sconosciute è un sentimento strano, ma piacevole.
Tra i palazzi intravedo la Luna, che nel frattempo si è avvicinata un altro po’ al fiume. Buonanotte, Luna.
Quando infine mi siedo sul divano non faccio neanche in tempo a vedere l’ultima parte di un programma qualsiasi che mi sono già addormentata.