21 July 2009



Norske Versjonen (Værsåsnill, ambefal)

Fino a tre anni fa non avevo idea di chi fosse Jahn Teigen. Non avevo mai sentito parlare dei suoi viaggi, delle sue vittorie nè delle sue sconfitte. Non conoscevo il suo genio a volte incompreso, la sua malinconia celata dietro una maschera da giullare.
Non avevo idea del fatto che fosse fuggito al sud, per dimenticare forse, per ritrovare l'equilibrio e la sintonia con sè stesso. Non potevo sapere che fosse venuto da me.
Sì, perchè io sono italiana, e sono fuggita al nord invece. Tre anni fa. Ed ho imparato le mie prime parole grazie a lui, kjærlighet, vakreste, perchè cantando si apprende in fretta.

Da amante del prog dei 70' mi sono appassionata ai Popol Vuh, ed ho stampato negli occhi quel festival di Oslo in cui lui, vestito di bianco con degli enormi baffi biondi, salta e grida sgraziato mentre un pubblico stordito gli costruisce intorno un'ondeggiante cornice. Incastrato tra Jim Morrison e Janis Joplin, non credevo che lo avrei mai visto davvero. Poi VG mi ha regalato il biglietto.

Tønsberg è sempre stata una città di passaggio per me, quel luogo insipido dove cambio autobus venendo da Horten per andare all'aeroporto. Per questo la sua vitalità mi ha sorpesa, il suo lungomare pullulante di locali, le sue barche in controluce davanti al tramonto. Non mi ero mai fermata a guardarla, e per questo non la avevo neanche mai vista. Tønsberg è la città di Jahn Teigen.

Ed è proprio davanti alla piazza che porta orgogliosa il suo nome che si svolge il concerto. Nella Oseberg Kulturhus, un grosso teatro dal colore verde del rame ossidato, la cui effige richiama la sagoma della nave vichinga di Oseberg, appunto, ritrovata a pochi chilometri dal centro della città. Lo spettacolo viene introdotto da poche parole. Non si tratta di una prima vera e propria, ma una sorta di prova generale. Penso che è meglio.

Dal buio si innalza all'improvviso la sua voce, che sussurra cantando poche parole note a tutti. Poi lui scivola fuori dalle tende scure, inizia a parlare dei suoi primi anni nella sua città, un paio di foto vengono proiettate su uno schermo bianco che assomiglia ad una vela. In pochi minuti ci racconta come è iniziato tutto, le parole di sua madre che lo spinsero a lasciare una città che non faceva per lui, il suo pellegrinaggio a Londra, Gerusalemme, le sue prime esperienze musicali, mentre le immagini strappano applausi e risate ad un pubblico in adorazione. Molti vanno al ginnasio, sottolinea, io ho viaggiato, invece. Questa è stata la sua educazione.



Quando racconta del suo ritorno in patria e attacca la prima strofa di Queen of all queens mi sembra per un attimo di rivedere quel lampo nei suoi occhi, imprigionato però adesso in un corpo stanco e dolorante. La schiena ricurva, le membra ossute e le mani deformate lo fanno assomigliare ad una allegoria di se stesso, come se quell'hunchback di Dylan Thomas gli fosse entrato dentro, trasfigurandosi in lui. Ciò non toglie che la sua energia esplode da ogni suo movimento, anche se affannato, e la sua voce limpida squarcia il silenzio e sovrasta possente tutto il resto.

Lo sfondo blu davanti al quale le due coriste spiccano nei loro abiti rosso acceso dona alla prima parte dell'esibizione un'atmosfera malinconica, mentre lui intona alcune delle sue canzoni più amate, seguito da un pubblico profondamente coinvolto. E questo gli riesce a meraviglia, guidare il pubblico come un direttore di orchestra, strappare contemporaneamente risate e lacrime.

Quando le vele della scenografia si tingono di rosa lui semplicemente sparisce, lasciando l'intera scena ad Anita Skorgan, che forse non si sente all'altezza del compito assegnatole. Entra timidamente e si siede al piano, esordiendo con un brano suonato appena sfiorando i tasti. Sembra quasi chiedere scusa per la sua presenza, ma si guadagna presto il suo ruolo sul palco. Ha addosso un bel vestito nero e delle scarpe dagli altissimi tacchi a spillo, che però sostituirà presto con delle scarpe meno impegnative ed un vestito azzurro che fa risaltare la sua pelle abbronzata.

Lei va a cambiarsi e lui torna in scena, un ridicolo elmo in testa, intonando så fint å være idiot che sembra essere più un suggerimento per sfuggire ai ricordi dolorosi che una semplice scenetta comica, come se lui volesse distaccarsi da lei, quello che lei ha significato e quello che ancora significa. Lei si riavvicina, dedicandogli ordinary people, lui torna ad allontanarsi, raccontando di quando da piccolo andò col padre a vedere Robertino, e poi del suo esilio volontario, accompagnato dal suo primo amore, che continua ancora oggi. La musica. Come un voler prendere le distanze, un voler giocare con questa relazione agrodolce che ancora oggi ammette essere la più importante della sua vita. Anita è la sua migliore amica, ripete in ogni intervista, come a volerselo ricordare lui stesso, e la musica è il suo amore. La sua performance in italiano fa tenerezza, anche se sono probabilmente l'unica del pubblico a rendersene conto.

Lo spettacolo va avanti ripercorrendo gli anni della sua carriera, con i suoi alti e bassi. Fino a quando introduce la sua ex moglie ed iniziano finalmente a cantare insieme. Doremi, friendly, tutte d'un fiato, lei che lo sovrasta di molti cm, lui che la sovrasta di molti decibel. I soli nove anni di differenza sembrano un milione, quando danzano insieme, un arzillo vecchietto accanto alla figlia teenager.

Splendido il medley finale, con min fòrste kjarlighet, optimist e adjò, col quale si chiude il concerto. Ottima la band che accompagna il duo, sobrie ma romantiche le suddette scenografie a forma di vela, che richiamano insieme le navi vichinghe e la città di mare, Tònsberg appunto.

Lui è Jahn Teigen fra Tònsberg, come Leonardo da Vinci, e nello spettacolo fonde tanti amori, quello per la sua città, per Anita, per la musica e per il suo affezionato pubblico, che si stringe in un abbraccio emozionato quando adjò sfuma nel silenzio. Nonostante il suo corpo sia provato, Teigen offre un grande e coinvolgente show, molto più di quello che mi aspettavo, e trono a casa un po' più ricca dentro. Anche un po' più triste, magari, ma consapevole che quella malinconia che mi ha trasmesso si può rinchiudere in una canzone. Adjò.

Anna Maria Gentili

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